questa è la mia newsletter che riguarda l’impatto della tecnologia nelle nostre vite, nel lavoro e nelle relazioni.
Iniziamo con tre cose:
Settimana prossima avrò lezione in Bocconi all'interno del Master Leading Self: allenare le competenze di relazione e la gestione dello stress per aumentare l’impatto personale.
Il 19 agosto presenterò il mio libro in Trentino. Quale migliore occasione per ritornare lì da quelle parti. Qui informazioni
Giovedì, mi trovi in edicola su Donna Moderna.
Tre, due, uno. Partiamo.
Qui con Massimo Polidoro mentre parliamo di digital detox nel suo podcast "Il Gomitolo Atomico"
"togli ’sto cavolo di cellulare."
“Gli tolgono il telefonino: adolescente ricoverato per crisi d’astinenza nel Torinese.” Questo è uno dei titoli apparsi nei giorni scorsi.
Questa notizia, nei giorni del ponte del 2 giugno mi è arrivata più volte su Instagram. “Ne parlerai?”, mi chiedevano. Non l’ho condivisa. Ma ci ho pensato. E ho deciso di parlarne qui.
Non per fare rumore. Ma perché dietro quella notizia sento un dolore profondo. Un grido che non possiamo più ignorare.
È la settimana più sfidante dell’anno. Ma anche quella che mi rimette al mondo. Ogni volta.
Perché si sta con loro: i ragazzi. Età media: 15 anni. Un’età in cui tutto è troppo. Troppo forte. Troppo fragile. Troppo veloce.
Molti arrivano con una fatica che non si vede. Ferite invisibili. Cuori che non riescono a dirsi. E la tecnologia, spesso, serve solo a non sentire.
"Già a 10 anni, il 70% dei bambini ha uno smartphone e il 93% è connesso a Internet. A 15 anni, l’accesso è praticamente totale: 98% ha uno smartphone, 96% un computer o tablet. Non è più una fase: è l’ambiente in cui crescono. E ignorarne gli effetti significa lasciarli soli." Rapporto Ocse
Ricordo Carlo (nome di fantasia): autismo non dichiarato, bastava guardarlo negli occhi per capire. Marco: i primi tre giorni senza una parola. Agnese: sorella maggiore, in una famiglia che si era sgretolata. E tanti altri. Ne ho parlato anche nel mio terzo TEDX.
In questi anni ho imparato una cosa, semplice e dura: la prima tecnica educativa sei tu.
Così, nei primi tre giorni:
Parlo poco. Ascolto molto. Guardo davvero. Mi tolgo le maschere.
E racconto chi ero. Dove ho sbagliato. Quanto ho cercato amore, senza sapere come si chiedeva.
E sai cosa succede? Dopo tre giorni, si aprono. Perché sentono che non devono essere “giusti”. Solo accolti. Solo visti.
Ogni anno c’è chi ha attacchi di panico. (sempre di più) Ansia che stringe il petto. Felpe indossate anche sotto il sole. Non è moda. Quelle maniche lunghe parlano. Di vergogna. Di difesa. Di bisogno.
E lì, in quei silenzi pesanti, non sono solo. Accanto a me c’è la dottoressa Elena Del Fante, psicologa. Una figura che ho fortemente voluto nel team, perché sapevo che in certi momenti non basta solo uno sguardo attento. Serve qualcuno che sappia accogliere, contenere, accompagnare. Lei lo fa con una presenza discreta ma profonda. Perché ci sono storie che io non posso reggere da solo. E perché educare - davvero - non è mai un atto solitario.
Mi viene in mente, ad esempio, il primo giorno: chiedo a tutti di togliersi le scarpe. Piedi nudi sull’erba. Un gesto semplice, ma che dice tutto. C’è chi si rifiuta. Chi ha paura degli insetti. Chi si abbandona subito, con un sorriso.
E se osservi bene - con attenzione, senza giudizio - in quel primo momento riesci già a intravedere qualcosa del loro mondo. Le convinzioni che si portano addosso. La libertà o il controllo respirato in famiglia. Il modo in cui sono stati accolti, lasciati andare, protetti o trattenuti. E se li sai ascoltare, ti parlano di chi hai davanti.
Mi ricordo ancora. Una volta, un ragazzo rimise le scarpe e trovò un AirTag. Un tracciatore. Un segnale. Un promemoria silenzioso di quanto, a volte, la fiducia venga sostituita dal controllo. Un gesto fatto “per proteggerlo”… che però diceva altro: “Non mi fido. Devo sapere dove sei. Sempre.”
E lì ho capito, ancora una volta, che la fiducia non si impone. Si merita.
E che il controllo, se non è accompagnato da relazione, diventa sorveglianza. E la sorveglianza non fa crescere: immobilizza.
E che il bisogno di controllo, spesso, nasce dalla paura. La paura di perdere. Dall’insicurezza. La paura che qualcosa sfugga. Che qualcuno si faccia male. Ma se continuiamo a controllare, senza fidarci, cresceremo una generazione che non sa scegliere, ma solo obbedire. E il vero pericolo, allora, non sarà la disconnessione… ma la dipendenza dall’approvazione.
Non ti racconto tutto questo per giudicare.
E lo so, mentre lo scrivo, sembro un po’ Crepet. Non cerco colpe per riempire i teatri. Cerco possibilità.
Io provo solo a tornare lì, ogni anno: nel mio adolescente ferito. Quello che voleva essere visto. Che si chiedeva: “Se sparissi, qualcuno se ne accorgerebbe?”
Il digitale oggi amplifica quella solitudine. Ma non tutto è perduto.
Sai cosa mi ha salvato? Una piccola fiammella. Un sogno che mi diceva, piano: ce la puoi fare.
E forse è proprio questa la chiave: Aiutare i ragazzi a ritrovare il loro fuoco interno, non a spegnere quello del telefono.
Rileggo tutto e capisco: non sto parlando solo di loro. Sto parlando anche di noi.
Anche noi, a volte, usiamo lo schermo per non sentire. Per non affrontare quel buco allo stomaco. La rabbia. Il senso di non essere mai abbastanza.
Anche noi abbiamo paura del silenzio. E della verità che ci può crollare addosso.
Allora forse, la domanda vera non è: “Come li salviamo?” Ma: “Come possiamo tornare ad esserci davvero?”
Io ci provo così:
guardandoli negli occhi raccontando la mia verità camminando accanto, senza volerli aggiustare
E tu, nel tuo piccolo… come puoi esserci?
Forse basta "poco". Un gesto. Uno sguardo. Togliersi le scarpe. Camminare sull’erba. Stare. Solo stare.
Magari leggere questa newsletter con tua figlia o tuo figlio. E chiedergli, con un sorriso lieve: “Come ti senti, davvero?” E poi restare lì. Anche se ti dice “boh”. Soprattutto se ti dice “boh”.
E se pensi: “Io figli non ne ho, non è per me”… ti capisco. Ma forse questa newsletter parla anche di te. Perché ognuno di noi è stato, almeno una volta, quel ragazzo che cercava uno sguardo vero. E ognuno di noi ha vicino qualcuno che ha solo bisogno di essere sentito.
Un amico che fa fatica a chiedere aiuto. Un partner che tace troppo. Una madre che non trova le parole. O semplicemente noi stessi. Quando ci perdiamo nel rumore.
E poi arriva una voce. Quella che forse stai pensando anche tu:
“Ma chi ha tempo?” “Tu non conosci la mia storia.”
Hai ragione. Non la conosco. Non so quanto hai corso, quante volte ti sei sentitə solə, quante notti hai passato a chiederti se stai facendo abbastanza.
Ma non ti sto chiedendo tempo. Ti sto chiedendo un attimo. Un respiro. Uno sguardo.
Un “ci sono” che non si dice a voce. Ma si sente.
Nessuno deve dire nulla. Perché basta esserci. Così, come si è. Questa settimana, al Summer Camp, non sto lavorando. Non sto facendo carriera. Non sto costruendo contenuti. Sto restituendo.
Perché tutto quello che ho imparato non vale nulla se non torna indietro, se non si sporca di terra e di vita vera.
E credimi: questa settimana è meglio di qualsiasi master ad Harvard.
Perché qui non si studia la vita. La si abbraccia. E la si lascia accadere.
alla prossima settimana.
una chiacchiarata con Massimo Polidoro
Cresciuto al fianco di Piero Angela, è uno di quegli uomini che ti lasciano senza parole: cultura sconfinata, curiosità instancabile, e un’umiltà che ti travolge.
E ad intervistarlo... ci sarò io. Un momento che promette di essere potente, pieno di domande vere e di riflessioni profonde su come stiamo spendendo - davvero - il tempo della nostra vita.
Solo nell’ultima settimana ho contato più di 16 articoli sulle principali testate: “Dipendenza da tecnologia”, “allarme smartphone”, “emergenza adolescenti”.
Tutti a dire la loro. Tutti a puntare il dito. Ma pochi a guardare davvero dove stiamo fallendo.
Per me, non è di dipendenza tecnologica che dovremmo parlare. È di vuoto. Di assenza di adulti capaci di restare. Di emozioni che non trovano casa, e finiscono per rifugiarsi dentro uno schermo.
Lo smartphone non è il nemico. Il vero pericolo è quando diventa l’unico posto dove un ragazzo si sente visto, riconosciuto, accolto.
Quando un “like” pesa più di un abbraccio. Quando le conversazioni in chat sono più rassicuranti di noi adulti che cambiano umore ogni sera.
Siamo tutti bravi a dare consigli. Anzi, alcuni si spingono oltre: “Vietateli!”, “Confiscateli!”. Ma poi si dimenticano di dire come si fa a stare.
A restare presenti. A costruire fiducia. A reggere il vuoto. La polarizzazione fa vendere più biglietti a teatro. Fa vendere più libri. Ma non salva nessuno.
E no, non siamo allo stadio. Qui non ci sono due squadre: tecnologia contro ragazzi. Qui c’è una sola domanda che ci riguarda tutti:
Dove siamo noi?
Perché ogni volta che non ci siamo, ogni volta che demandiamo allo schermo, ogni volta che ci giustifichiamo con “sono stanco”, “non so da dove cominciare”, stiamo firmando una delega alla solitudine.
E la solitudine digitale non si vede nei cavi. Si vede nei silenzi lunghi a tavola, nelle felpe tirate fin sopra le mani, negli occhi che cercano uno sguardo e trovano solo una notifica.
Non si tratta di scegliere da che parte stare. Si tratta di trovare il coraggio di rimanere.
Rimanere anche quando fa male. Rimanere anche quando non sappiamo che dire. Rimanere al posto del feed, al posto dell’algoritmo, con una presenza che non ha bisogno di connessione… perché è umana.
👨💻 i link della settimana
Una mia intervista su Parole Ostili sul Digital Detox Festival. LEGGI QUI
Il benessere non è più una pausa, ma una pratica quotidiana. Millennials e Gen Z lo cercano in ciò che mangiano, nei viaggi, nella pelle che abitano e nella mente che curano. (QUI) ENG
La nuova campagna di Fondazione Carolina: per un'estate "senza campo", lo smartphone può andare in vacanza? LEGGI QUI
✏️ la frase della settimana
“Il controllo è la paura travestita da amore.” Gabor Maté
❤️ Diffondere il “verbo del digital wellbeing”
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Buongiorno Reader questa è la mia newsletter che riguarda l’impatto della tecnologia nelle nostre vite, nel lavoro e nelle relazioni. Iniziamo con tre cose: Da oggi in edicola, su Donna Moderna, c’è un bellissimo pezzo firmato da Maria Elena Viola dedicato al retreat in un convento del 1200. Nel frattempo, Patrizio Roversi e Syusy Blady parlano del Digital Detox Festival nel loro TG di Turisti per Caso. Vedi il video qui. Settimana scorsa ho insegnato al Master Leading Self della SDA della...
Buongiorno Reader questa è la mia newsletter che riguarda l’impatto della tecnologia nelle nostre vite, nel lavoro e nelle relazioni. Iniziamo con tre cose: Domani sarò allo SDA Bocconi per una lezione di Corporate & Digital Wellbeing all’interno di un Master che guarda al lavoro "di crescita" interiore e non solo. Oggi sempre a Milano dopo una formazione aziendale a Trenord, nel pomeriggio sarò dal notaio Francesco per una firma importante. Grazie. Se hai fretta, passa oltre. Ma se hai...
Buongiorno Reader questa è la mia newsletter che riguarda l’impatto della tecnologia nelle nostre vite, nel lavoro e nelle relazioni. Iniziamo con tre cose: Oggi la newsletter arriva di giovedì mattina. Ieri ero ko per un forte mal di testa. Una bella notifica per il mio corpo. Oggi pomeriggio sarò in collegamento con il programma Casa Italia della Rai per parlare di turismo e digital detox. Ci vediamo a Canazei? Al summer camp di digital education? Tre, due, uno. Partiamo. Qui mentre...